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6 dischi da ascoltare e da leggere
Le recensioni sintetiche a cura di Manuel Nash, uno sguardo sul mondo della musica.
How Our Love Grows – STRABE
Tra tutti gli interessanti esordi del 2023, quello degli STRABE, quanto a maturità espressiva, distacca di parecchie lunghezze la concorrenza e, complice la scelta di materializzarsi nella porzione finale di questo 2023, sembra quasi uno di quei gol che, al novantesimo, ribalta un risultato apparentemente già scritto. Il perfetto controllo del linguaggio (un’accorta amalgama di synthpop crepuscolare e romanticismo balearico) svela tutto il capitale di talento che il duo di Dublino, con una sicurezza niente affatto comune, è già in grado di gestire. How Our Love Grows esce ad un anno da Juvenalia, il generoso EP (ben 10 tracce) nel quale trovava posto anche Best Worst Year, l’implacabile tormentone indie che, a cavallo dei mesi del lockdown, è riuscito a catalizzare l’attenzione grazie al suo irresistibile abbraccio tra minimalismo alt dance (attiguo ai New Order più radio friendly) ed una gommosa ritmica imparentata con il miglior French Touch. La formula qui non cambia ma la produzione viene efficacemente levigata e rifinita, diventando più liquida ed organica. La sensazione è quella di avere davanti dei Disclosure motivatamente impegnati ad incrociare l’isolazionismo indie dei Radio Dept. con l’esuberanza degli Alvvays. Il loro è un futuro che si profila tutt’altro che incerto. 7.5/10
Rio – Trevor Rabin
Il ritorno del chitarrista sudafricano tradisce una latente ansia di modernità. Alcuni brani, cesellati in modo sin troppo minuzioso (penso a Big Mistake), faticano vistosamente ad amalgamarsi con il (felice) tradizionalismo di altri. Tenuto insieme grazie ad un’imponente competenza, Rio è un album onesto, ideologicamente fermo a Talk (il suo ultimo album con gli Yes, uscito nel 1994), dettaglio che, vista la scarsa propensione alle novità dei fan ormai in fascia senior, non rappresenta necessariamente un difetto. Professionalità eccelsa e mestiere da Premier League aiutano Rabin ad inscatolare un risultato formalmente impeccabile, che racchiude però solo un onesto esercizio di stile votato all’isolazionismo. Meglio allora riascoltare (o scoprire) Can’t Look Away (1989) o lo strumentale Jacaranda (2012). Non fastidiosamente nostalgico, ma neppure audacemente lungimirante, Rio è consigliato unicamente a chi, non avendo voglia o tempo di andarsi a cercare la musica rilevante dei nostri anni (che non è certo poca), vuole un prodotto rassicurante e “non ordinario”. Meglio di Waters ma (gradevolmente) fuori tempo massimo. 6/10
K3 – Karma
Tra i 6 dischi da ascoltare e da leggere c’è anche il nuovo album dei Karma.
Quello dei Karma è un culto che, dal 96 (anno del loro scioglimento) ad oggi, è cresciuto con insospettabile ed inesorabile costanza. A sorprendere, regalando un senso di inattesa vertigine, sono la consistenza e la solidità di un album che non solo fa selvaggiamente a brandelli i due precedenti capitoli discografici (Karma ed Astronotus, rispettivamente del 1994 e del 1996) ma dimostra un “respiro” produttivo di livello assolutamente internazionale. K3 ha tutto quello che, in termini di visione, personalità, perizia ed efficacia, mancava ai Karma di 30 anni fa, smarriti nel labirinto di un onesto grunge per la provincia dell’impero. Le sue 12 tracce sanno perfettamente come investire (al meglio) quel capitale di immaginazione che invece manca, come l’aria, ai clichè impiegatizi di una buona fetta del rock contemporaneo. La formazione è rimasta la stessa ma il cemento di ieri è diventato granito. Da alunni a professori. Boom! 9/10
https://open.spotify.com/intl-it/album/3kziu935Vufr0IDxJFz4L5?si=q2lXzSjWQUywEyJHc_dIIA
Mid Air – Romy
Ultima dei The XX a giungere all’appuntamento con lo spin off, Romy sceglie una visuale più “facile” solo in apparenza rispetto a quella dei colleghi.
Mid Air, che contempla da lontano lo squadrato pop cinetico di Jamie bypassando completamente il soul al silicio di Oliver Sim, ci catapulta nel bel mezzo di certo truzzismo “tunz tunz” di metà anni ’90.
Una peculiare scelta estetica (anche nell’artwork) che riesce tuttavia a regalarci una sana dose di costruttivo “sgomento on the dancefloor”.
Siamo di fronte a materiale “scabroso”che, in mano ad altri, imploderebbe al primo beat.
Romy, con perizia retromaniacale, ricontestualizza invece quel singolare contenitore in modo da permettergli di accogliere tutta l’urgenza di un fragile esistenzialismo 2.0.
Il suo è un involontario (e riuscitissimo) tutorial che spiega come indossare un outfit kitsch sull’orlo di un baratro cringe. Miracolosamente non si cade mai e, anche con la testa, si balla parecchio. 7/10
Selva – Marta Del Grandi
L’ascolto di Selva mi ha riportato alla mente Submarine Address di Bill Cargill, album (tanto sfortunato quanto affascinante) pubblicato nel 1997, in pieno edonismo trip hop. Esattamente come Marta Del Grandi oggi, Cargill esplorava (ma non era certo l’unico) le strade di una “tradizione futuribile”.
Benché la parentela tra i due lavori sia più spirituale che estetica, è profondamente suggestivo che, dopo 26 anni, le possibilità offerte da quel percorso, ruralmente tradizionale ma non ostacolato da un vacuo luddismo a priori, siano ancora attualissime e capaci di accendere la creatività di una nuova generazione di songwriters. Il secondo album dell’artista milanese (residente in Belgio dal 2012) è un “oggetto magnificamente alieno” per l’indolente routine discografica del nostro paese.
Rarefatti ed emotivi, i suoi dodici episodi incorniciano una tensione intima e mai timida che consente all’autrice di gestire la fragilità della materia con inconsueta ed invidiabile abilità. L’ottima padronanza della lingua inglese fa il resto, marchiando l’internazionalità di un album tanto (inconsapevolmente) audace quanto (convincentemente) apolide. 8/10
The Harmony Codex – Steven Wilson
Ultimo dei 6 dischi da ascoltare e da leggere, e quello del “nostro” Steven Wilson.
Bisogna ammettere che, in più di 30 anni di carriera, Steven Wilson non ha mai pubblicato lavori al di sotto della sufficienza. Benché algido e non completamente risolto, persino un album come Closure/Continuation, il recentissimo ritorno in attività dei Porcupine Tree, darebbe un senso all’esistenza di molte band esordienti. Pensare al quantitativo di musica e di progetti ai quali Wilson ha messo mano, provoca un istantaneo attacco di labirintite, anche a chi può vantare un’invidiabile dimestichezza con la sua bulimica produzione.
La qualità di The Harmony Codex non fa eccezione alla regola e, dopo la interlocutoria stravaganza di The Future Bites, ci regala la buona novella di una ritrovata piena forma espressiva. Alimentato da un’audacia onnivora che spesso perde qualsiasi freno inibitorio, l’album riesce ad unire i punti (anche i più distanti) di una carriera creativamente, professionalmente ed eticamente esemplare.
Con maniacale perizia Wilson mette sul tavolo tutte le sue skill, ottenendo un risultato impressionante ed esaustivo ma che, a tratti, può risultare estenuante. Il suo è un virtuosismo per i neuroni e non per le dita, pervaso da un’euforia creativa che rischia, tuttavia, di offrire troppe informazioni da processare contemporaneamente. I brani più estesi, appaganti e familiari, aprono un portale dal quale l’autore recupera, aggiornandolo adeguatamente, lo spirito psichedelico di Voyager 34 e The Sky Moves Sideways, nel quale gli istinti space jam degli Ozric Tentacles si incarnano in forme assai più sofisticate e mutevoli, credibilmente contemporanee e mai nostalgiche.
E’ tuttavia negli episodi dal minutaggio più parsimonioso e radiofonico che il livello della scrittura svela uno stato di grazia non comune per una carriera ormai giunta ad un invidiabile traguardo di longevità. Forse il più grande merito di The Harmony Codex è identificabile nel genuino entusiasmo che lo anima ed attraversa, una tangibile sensazione di sincero divertimento che contribuisce a trasformarlo in un “Best Of” spirituale, la cui urgenza, non solo estetica, appaga l’ascoltatore senza inciampare troppo (ma comunque inevitabilmente) nell’accondiscendenza figlia di un vuoto mestiere. 7,5/10